Vestivamo alla marinara, di Susanna Agnelli

Il libro

79 brevissimi capitoli: due o tre pagine ciascuno; a volte mezza. L’autobiografia di Susanna Agnelli nell’arco di tempo che si snoda dalla sua nascita al matrimonio con Urbano Rattazzi: 1922-1945. L’educazione alto-borghese, le frequentazioni aristocratiche, le villeggiature a Forte dei Marmi, i collegi e le scuole private, i primi amori; largo spazio all’esperienza da infermiera alla CRI, che sarà fondamentale nella futura vita della protagonista da personaggio pubblico. E poi la guerra. Tutto raccontato con uno stile piano fatto di periodi brevi, poche parole e punto (“Il linguaggio che mi è abituale nel parlare”, scrive la stessa Autrice nell’Avvertenza). Non si può non pensare a Natalia Ginzburg, la cui vita ebbe del resto con Torino forti punti di contatto.

Il contenuto e i personaggi

La lettura, all’inizio, procede tranquilla nel tempo indefinito dell’imperfetto: “Vestivamo alla marinara” è infatti tratto proprio da un passo della prima pagina. Il periodo dell’infanzia è presto archiviato e capitolo IV Susanna ha già dieci anni. Si delinea a poco a poco il ritratto della madre, Virginia Bourbon del Monte, personalità eccentrica e non del tutto accetta al patriarca della famiglia e fondatore della Fiat, Giovanni Agnelli. Colpisce il modo in cui l’Autrice è riuscita a tratteggiare quest’ultimo: “il Senatore” o “il nonno”, come usa chiamarlo, aleggia sulla famiglia e sul racconto come un’ombra imponente e severa pur senza mai entrare in primo piano.

E attraverso i ricordi della Agnelli sfilano davanti a noi alcuni importanti protagonisti di storia sociale, letteraria, politica italiana, alcuni dei quali compaiono nel racconto in modo ricorrente, altri invece sono apparizioni che hanno il sapore del “cammeo” cinematografico: il fratello Gianni, Curzio Malaparte, Italo Calvino, Galeazzo Ciano, Urbano Rattazzi, Mussolini, il re d’Italia.

La storia e la guerra

Rimarrebbe deluso, però, chi pensasse di sfogliare queste pagine per vivere di riflesso un po’ di quel mondo aristocratico dorato precluso a noi umili borghesi: questo libro non si legge con lo spirito con cui si guarda Downtown Abbey. La penna della Agnelli nulla concede al mondo dell’effimero né alla descrizione autocompiaciuta. Anche perché, a partire dal cap. XXXIII, il subentrare della guerra imprime al racconto un tono e un ritmo decisamente più drammatici. “Per la prima volta vedevo la guerra in faccia; la carne mutilata, la disperazione, il dolore, una moltitudiine di occhi che interrogavano”. E la vediamo anche noi, la guerra, attraverso il racconto sempre asciutto della protagonista imbarcata come infermiera nelle navi ospedale della Croce Rossa. E’ l’8 settembre: l’Italia piomba nel caos. La narrazione si fa ancora più coinvolgente: alleati, partigiani, tedeschi, la mancanza di cibo, i bombardamenti e i cecchini, le tessere per la benzina, le mine. “Una quantità incredibile di bambini abbandonati affollava l’Italia”, scrive al cap. LXXIII: non vi viene in mente “il lamento d’agnello dei fanciulli” di Alle fronde dei salici ?

Impegnata a soccorrere feriti anche grazie ad una squadra di ambulanze da lei stessa organizzata, la Agnelli apprende in una Firenze semidistrutta la notizia dell’arrivo degli alleati. E poche pagine dopo è a Forte dei Marmi: “Quando la vita mi feriva, c’era sempre la stessa spiaggia a raccogliermi”. Lì, senza troppi fronzoli, si sposa pochi giorni dopo con il futuro presidente del Consiglio Urbano Rattazzi. Bellissima la frase finale: lo sposo attende all’altare; “ho guardato nei suoi occhi verdi e ho pensato che la vita sarebbe stata un prato verde, verde come i suoi occhi, pieno di bambini che correvano”.