Dante Alighieri de vulgari eloquentia

La modernità del De vulgari eloquentia

Il “Trattato sulla volgar lingua” di Dante (di cui all’inizio della mia videolezione vi offro una scheda sintetica tramite la lavagnetta qui sotto)

Scheda dell’opera: De vulgari Eloquentia

è normalmente considerato opera minore rispetto all’immensità della Commedia ma in realtà (oltre a risultare di lettura assai gustosa, se ben tradotto dal latino in cui è stato scritto) avremmo almeno due buoni motivi per considerarlo opera di genio e di straordinaria modernità.

 

1️⃣ Moderno innanzitutto perché dimostra come Dante avesse compreso che l’unità politica di un popolo è tutt’uno con la sua unità linguistica: il poeta, infatti, afferma che il volgare poetico italiano è una lingua curiale perché, se una curia (cioè una reggia sovrana della penisola tutta) esistesse, è lì che tale lingua verrebbe parlata, e con ciò rivela il sogno di un’Italia unita sotto un unico sovrano ed un unico idioma poetico nazionale. E noi non possiamo non pensare ai casi in cui, nel mondo contemporaneo, le differenze linguistiche all’interno di uno stato vengono usate a pretesto per avanzare pretese indipententistiche: segno che, appunto, unità politica e linguistica vanno di pari passo.

2️⃣ Moderno poi perché, nonostante la mancanza degli strumenti della linguistica storica attuale, Dante riuscì ad avere alcune formidabili intuizioni circa i rapporti di parentela fra le lingue che oggi chiamiamo “neolatine”. Il suo limite fu unicamente quello di non aver capito che la madre delle lingue che lui correttamente intuisce sorelle è proprio il latino. Di tutto questo vi parlo nel video che vi invito ad ascoltare: un viaggio avvincente che segue Dante “alla caccia” (secondo la sua metafora venatoria) del volgare illustre.

Il volgare illustre

Ma a proposito di latino e di lingue neolatine, cosa rappresenta il latino per Dante?

Il rapporto fra latino e volgare per Dante

Come dicevamo, Dante, attraverso un semplice confronto tra parole simili dei tre volgari europei principali (lingua d’oc, lingua d’oïl e lingua del sì), intuisce che si tratta di lingue sorelle che originariamente costituivano un unico medesimo idioma e che dunque hanno un’origine comune. Circa la madre di tali lingue, Dante non si esprime, ma nega che possa trattarsi del latino il quale, anzi, per lui non rappresenta nemmeno la lingua naturalmente parlata dall’antico popolo di Roma. Secondo l’Alighieri, infatti, homo est instabilissimus et variabilissimus animal, nella storia come nella politica come nella comunicazione: le lingue mutano nello spazio e nel tempo e, proprio come freno a tale mutevolezza, nasce la grammatica e quelle che lui chiama “lingue grammaticali”, cioè governate appunto da regole di grammatica. Il latino è dunque per Dante una gramatica locutio (lingua grammaticale) inventata a tavolino dagli antichi come freno alla mutevolezza delle lingue, non la lingua che gli antichi romani imparavano dalla nascita come loro lingua naturale (che per Dante, evidentemente, era un’altra).

Il latino di Dante

Il poeta pone così la distinzione fra vulgaris locutio e gramatica locutio: la prima è quella che si impara “dalla balia” durante l’infanzia, l’altra è un idioma artificiale dotato di regole grammaticali. Al di là della erronea visione dell’Alighieri, dovuta, come dicevo, alla mancanza di adeguati strumenti filologici, è interessante che egli abbia ritenuto la lingua volgare più dignitosa di quella grammaticale: scrive infatti che essa è la prima lingua che il genere umano abbia usato, è creata da natura e non è “fattura d’arte”, ed inoltre è anche l’unica usata da tutti gli individui (considerato che la grammatica e dunque il latino la studia e la conosce una parte minoritaria della popolazione). In tal modo, Dante dà anche un fondamento teorico alla sua scelta di comporre un trattato sul volgare.