Il Vantone di Pasolini-Plauto al teatro Arcobaleno

Spettacolo e avanspettacolo, come commedia plautina vuole 🎭

Fino al 29 gennaio è in scena al teatro Arcobaleno di Roma Il Vantone di Tito Maccio Plauto, o per meglio dire di Pierpaolo Pasolini: Il titolo in greco sarebbe Alozanone / ma noi in nostra lingua diciamo “Er Vantone”. Stiamo parlando insomma del Miles gloriosus, di cui il grande intellettuale (di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita) fece, su richiesta di Vittorio Gassmann, una traduzione in sole tre settimane e in vernacolo romanesco. L’allestimento prodotto dal C.T.M (Centro teatrale meridionale) per la regia di Nicasio Anzelmo mette in scena proprio il testo di Pasolini, riproducendolo in gran parte fedelmente, incluse le gustosissime rime che Pasolini aveva creato sul modello degli stornelli romaneschi:

Ecchime, sto accanto a te,
padroncino mio bello, più gajardo de un re!
Manco il Dio della guerra sarebbe tanto gaggio
da mettere in confronto il suo col tuo coraggio!

La vera sorpresa, che è anche la vera bellezza, di questo allestimento arriva pochi minuti dopo l’inizio: il servo Palestrione inizia a lusingare il miles “vantone” con un recitato/cantato al ritmo di un pezzo da cabaret (le musiche sono di Giovanni Zappalorto) che, insieme al testo, produce un effetto esilarante. E a chi conosce il teatro antico vien subito da pensare al “canticum”, quella sezione cantata che si alternava con le parti recitate. E qui, di cantica, ce ne sono tanti! Non solo: nei successivi vi si uniscono anche gustosissimi movimenti coreografici (curati da Barbara Cacciato), un misto di comico, spiritoso e grottesco, duetti, terzetti, quartetti. Appena ne termina uno non si vede l’ora che arrivi il successivo, e gli antichi spettatori avranno certamente pensato la stessa cosa.

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Eh sì, perché diciamolo subito: la traduzione di Pasolini e la messa in scena di Anzelmo hanno in comune l’intelligenza di rivolgersi al testo antico “senza quel finto rispetto che spesso, come un macigno, ne ostruisce la reale comprensione” (Umberto Todini), arrivando così al miracoloso paradosso che si risulta più “filologi” osando (quando necessario, anche con un pizzico di impertinenza) che restando aderenti a muffide consuetudini traduttorie e recitative. Il richiamo di questo allestimento all’avanspettacolo, a cui è stato giustamente accostato questo allestimento, lungi dall’essere una di quelle generose attualizzazioni arbitrarie fatte per rendere l’antico più digeribile ai moderni, va a cogliere paradossalmente la vera natura, l’autentica anima del teatro di Plauto, che dev’essere stato proprio così: nel suo fondere recitazione, canto, mimo, danza, musica, era uno spettacolo completo a cui il cabaret degli anni ’60 (quelli, non a caso, a cui risale la traduzione pasoliniana, che è del 1963), pieno di lazzi, duetti, rapidissimi scambi di battute, doppi sensi e ballerine,  si doveva avvicinare molto.

Anche la scelta di rappresentare il dramma in un atto unico (un’ora e mezza senza pausa, che – purtroppo – vola velocissima) non è arbitraria ma perfettamente coerente con l’originale: la divisione in cinque atti che noi troviamo nel testo, infatti, non è plautina ma risale agli umanisti del Quattrocento; Plauto contrassegnava solo i cambi di scena.

Una rappresentazione divertente, scoppiettante e variopinta

La caratterizzazione dei personaggi voluta da questa regia è praticamente perfetta e del tutto convincente.
Da un lato, essa è coerente con il periodo storico in cui Pasolini ha tradotto l’opera: i costumi coloratissimi e le scene di Angela Gallaro Goracci ci trasportano negli anni ’60 con qualche citazione dello stile “figli dei fiori”, mentre il soldato da miles si fa tamarro di periferia (con al collo due di quei catenacci che ci capitano spesso di vedere anche oggi, ma purtroppo… non sul palcoscenico!).
Dall’altro, gli attori sono tutti bravissimi, scelti – è evidente – con estrema cura al fine di accoppiare al meglio persona e personaggio.

Il podio, naturalmente, va a Palestrione (Nicolò Giacalone, bravissimo), non foss’altro perché è stato lo stesso Plauto a volere così all’atto di concepire l’opera: come ho già spiegato parlando del Miles gloriosus, nonostante il titolo della commedia sia dedicato al soldato, il vero protagonista è lui, il servus callidus, servo sì ma, a livello drammaturgico, padrone: padrone della trama, di cui tiene i fili assegnando a ciascun personaggio il suo ruolo (praticamente un regista dietro il regista: il teatro nel teatro, la meraviglia del teatro plautino), ma anche padrone della scena: più della metà delle battute sono destinate a lui, un ruolo impegnativo quindi, che Giacalone assolve al meglio. Pieno di energia, acrobatico, mimica potente, strafottente e spavaldo come Plauto lo ha voluto.

Molto ben caratterizzato anche Sceledro, impersonato da Giovanni di Lonardo: il servus stultus, il cui costume di scena unitamente all’ottima recitazione esaltano in modo opportuno il carattere da “scemo del villaggio”; importante era infatti, e regista e attore ci sono riusciti, rendere la differenza fra i due servi, l’uno astuto ed intelligente che si guadagna le simpatie di Plauto e del pubblico, l’altro poco sveglio e destinato a farsi beffare dal “collega”.

L’ingresso delle due donne complici dell’intrigo di Palestrione, la meretrix Acroteleuzio (impersonata da Anna Lisa Amodio) e la sua servetta Milfidippa (Claudia Salvatore), è esilarante e porta all’apice la climax della commedia. Quelli che nella struttura della trama sono considerati “personaggi secondari” qui occupano la scena con la loro recitazione e la loro presenza esuberante; la Amodio in particolare, opportunamente involgarita in un costume a paillettes sbarluccicanti e chioma fiammeggiante, bravissima nei panni di una cortigiana di alto bordo (o meglio, che si vorrebbe tale), e deliziosa anche la scenetta di Milfidippa che parla con il miles mentre Palestrione, da dietro, le suggerisce a gesti cosa dire: una piéce da avanspettacolo puro ma così squisitamente plautina.

Eccellenti anche tutti gli altri: Fatima Romina Ali, brava e convincente nel ruolo della ragazza rapita Filocomasio (a proposito, modificare il suo nome in Filocomasia è stato forse ?? un espediente per far capir meglio ad un pubblico non avvezzo ai nomi greci che si tratta di un personaggio femminile, ma non era proprio necessario e in un paio di casi si è persa anche la rima), Giacomo Mattia nel ruolo di Pleusicle, che ha saputo rendere in modo simpatico e convicente l’adulescens innamorato tipicamente plautino dagli ormoni impazziti, ed il vecchio vicino di casa di Pirgopolinice, Periplecomeno, impersonato da Paolo Ricchi.

Ma a proposito, questo Vantone… che fine ha fatto? Plauto gli assegna un ruolo, bisogna dirlo, particolare: gli dedica il titolo della commedia ma ci rendiamo perfettamente conto che il vero protagonista è un altro, e per di più, dopo averlo introdotto nella prima scena, lo fa sparire per due atti (forse una mezz’ora buona). Alla sua prima apparizione all’inizio del dramma Domenico Pantano potrebbe lasciare un poco perplessi, in parte perché, come lui stesso ha dichiarato in un’intervista, ha dovuto adattarsi a recitare in un dialetto che non è il suo, in parte perché delude l’orizzonte d’attesa dello spettatore che si aspetta un vir vestito da soldato, borioso e supremamente antipatico. Il suo personaggio è però tutt’altro, e lo si inquadra meglio al suo riapparire sulla scena: quello che regista e attore hanno creato è un uomo (non un miles) di mezza età, borioso e vanaglorioso sì, ma di quelli a cui va non l’antipatia bensì una (indulgente?) commiserazione del pubblico, il quale sa già che egli è la vittima predestinata. Il miles gloriosus di questa messa in scena potremmo definirlo “un innocuo sborone di periferia”, talmente stupido nel suo egocentrismo e così ingenuo nella sua incapacità di guardarsi allo specchio per quello che realmente è, che non riesce proprio a risultare antipatico. E nella caratterizzazione di questo vantone, Domenico Pantano è bravissimo: la sua parrucca da improbabile “piacione de bborgata” anni ’60 la vorrei anch’io e mimica e movimento scenico sono spassosissimi; alla fine ci si accorge che anche il romanesco imperfetto non rappresenta un limite, anzi: questo Pirgopolinice da Torpignattara potrebbe essere benissimo un romano trapiantato che tradisce dalla cadenza le sue origini non capitoline.

La traduzione di Pasolini si conclude con uno stornello romanesco (di quelli che si possono ascoltare all’inizio di Mamma Roma), che sostituisce il tipico plàudite della commedia antica:

Fior de le grotte,
auguro a tutti de portà rispetto
alle donne d’altri… e bona notte!

Lo stornello è giustamente ripetuto diverse volte a ritmo di musica e accompagnato da una divertente coreografia. E a proposito di “divertente”: Herbert von Karajan, il grandissimo direttore d’orchestra, diceva che segno di una buona orchestra è quando si vede che chi suona si sta divertendo. In questo caso abbiamo una compagnia teatrale, ma le parole di Karajan ci stanno benissimo lo stesso.
Non rimane che andarla a vedere, subito subito! 🎭 👍🏻